Artevin ARTEVIN Artevin

LA MIA COLLEZIONE DI
TERRAGLIE NAPOLETANE

XVIII - XIX e XX secolo


DALLA FINE DEL XVIII ALLA METÀ DEL XIX SEC.

ROMANTICISMO/NEOCLASSICISMO
1-2) Coppia di piatti con decori in stile “greco-siculo

Cherinto Del Vecchio

1810 ca.


Marca impressa

Del Vecchio
N
3) Piatto in stile egizio con figure nere e rosse su fondo bianco

Salvatore Colonnese

1830 ca.


Marca impressa

COLONNESE
Classico servito delle figuline Partenopee Giustiniani-Del Vecchio, venne riprodotto anche da Salvatore Colonnese, ex lavorante dei Giustiniani
4) Statuina in terracotta raffigurante la Venere di Capua. Tipica rappresentazione delle manifatture Partenopee imitanti le statue raccolte nel Museo Borbonico

Produzione napoletana

primi decenni del 1800
5-6) Piatti con scene a figure rosse

Giovanni Mollica

1842 ca.


Marca impressa

Giovanni
Mollica
7-8) Coppia di piatti con scene all'“etrusca

Del Vecchio

1830 ca.


Marca impressa

Del Vecchio
N
9) Salsiera con figure di guerrieri nello stile
greco-siculo

Biagio Giustiniani

1828 ca.


Marca impressa

Giustiniani
I.N.
10-11) Tazza e piattino con figure attiche

Francesco & Gaetano Colonnese

1836 ca.


Marca impressa

F. & G. COLONNESE - NAPOLI -
12) Grande piatto con tesa ornata e decori floreali policromi (secondo il repertorio della Real Fabbrica di Napoli)

Migliuolo-Giustiniani

1810-1818


Marca impressa

F.M.G.N.

(Fabbrica Migliuolo Giustiniani Napoli)
13) "Il Trionfo di Bacco”, grande Brocca con manico a grottesche e decori allegorici nello stile “egizio

Nicola/Biagio Giustiniani

Napoli

fine 1700 inizi 1800
14) Lampada ad olio a due fuochi con decori attici a figure rosse “stile etrusco

Cherinto Del Vecchio

1810 ca.


Marca impressa

del Vecchio
N
15) Piatto della Real Manifattura di Porcellana di Napoli. Costume del Paese di Collelungo (oggi Collelongo) Provincia Dell’Aquila “Abruzzo Ultra”

Poulard Prad

1809-1820


decorazione di
Raffaele Giovine


Marca in Rosso

Napoli 1814
(sormontata da corona)
(decorazioni in rosso e nero su fondo bianco e classiche figure del repertorio della figulina Giustiniani)
Tipica produzione delle manifatture Partenopee
16-17) Anforette con figure attiche, nello stile “all'etrusca”

Manifattura Napoletana

1835 ca.


Prive di marca
18) Anfora con figure attiche, nello stile “all'etrusca”

Manifattura Napoletana

1830 ca.


Priva di marca
19-20-21) Pipe napoletane in terracotta

Napoli

1700-1800
22-23) Coppia di piatti da portata con tese dipinte in blu

Salvatore Colonnese

1830 ca.


Marca impressa

COLONNESE
24) Busto di PLATONE in terracotta

Manifattura Napoletana

primi decenni del 1800


Marca impressa in ovale
leggibile in parte

????????????
* NAPOLI *
25) Piatto con figure attiche, cosiddetto nello stile “all'etrusca

Cherinto Del Vecchio

1810 ca.


Marca impressa

del Vecchio
N
26) Piatto con decori floreali policromi e festoni (secondo il repertorio della Real Fabbrica di Napoli)

Fabbrica del Vecchio

1820-1830


Marca impressa in corsivo

F.D.V.
N

(Fabbrica Del Vecchio Napoli)
27) Piccolo vaso neoclassico a forma di colonna greca, con scanalature e bordo a palmette

Napoli

primi decenni del 1800


Probabile manifattura

STINGO
28-29-30) Fioriere in terracotta di gusto neoclassico, con applicazioni di festoni foglie di acanto e protomi di satiresse

fine 1700 inizi 1800


Probabile manifattura

STINGO
31) Cestino ovale con tesa traforata e decori floreali policromi (secondo il repertorio della Real Fabbrica di Napoli)

Manifattura Migliuolo-Giustiniani

1810-1818


Privo di Marca
DALLA FINE DEL XIX AI PRIMI DECENNI DEL XX SEC.

NATURALISMO/NOVECENTO
32) Grande piatto con dama in abito ottocentesco

V. Sostegni & C.

1880 ca.


Marca in blu

V. Sostegni & C. Napoli
33) Portagioie a tuttotondo che rappresenta un fanciullo napoletano (venditore)

Industria Ceramica Napoletana

1889 ca.


Marca impressa
(in monogramma e coronata)

IC
34) Piatto in terracotta maiolicata, con pescherecci. Premiata Fabbrica di Maiolica Artistica.

Edoardo D'AMATO
Strada Marina Nuova n. 134
– NAPOLI –

1890 ca.


Marca in monogramma
Alle spalle di questa manifattura esisteva una società formata dal conte Candida Gonzaga, dal principe Capece Minutolo, dal marchese Lignola ed altri soci. Direzione di Giuseppe Mosca - fallì intorno al 1890
35-36) Deliziosi busti in terracotta, raffiguranti una coppia di fanciulli napoletani

Giovanni DE MARTINO
Scultore Napoletano
(1870-1935)

Modelli realizzati per la Fonderia
CHIURAZZI NAPOLI

fine 1800 - inizio 1900

Privi di marchio
37) Vasetto da marmellata CIRIO

Chiurazzi

1930 ca.


Marca

CHIURAZZI

CAPODIMONTE
Alcuni straordinari scultori Napoletani (De Martino, Gemito, D'Orsi, …), tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, scelsero come tema dominante della loro arte il mondo dell’infanzia, bambini o giovanetti nelle più diverse pose, ottenendo modellati sobri e poetici con tratti, espressioni e costumi tipicamente partenopei
38) Piatto quadrato in terracotta maiolicata, con tesa merlettata e scena centrale con veduta marinara con barche e vesuvio sullo sfondo

F.lli Mollica

1890 ca.


Marca

M
(coronata)
39 Piatto in terracotta maiolicata, raffigurante una scena campestre con contadinella

Fabbrica Fratelli Mollica

1887


Marca

Fca Flli
Mollica
87.
40) Piccola Fioriera in Terracotta raffigurante da un lato un cigno e dall'altro una lumaca

Fratelli STINGO

primi decenni del 1900


Marca impressa

STINGO
NAPOLI
41) Grande vaso in terraglia policroma, decoro di paesaggio marinaresco, con applicazioni di rete da pescatore e frutti di mare

F.lli Cacciapuoti

fine 1800
42) Testina in terracotta di fanciulla in costume partenopeo

Modellato dello scultore verista napoletano

Achille D'Orsi

ultimi anni del 1800
43) Piccola brocca con “segreto”
-BEVETE SE POTETE-

F.lli Mollica

primi decenni del 1900


Marca

M
(coronata)
Il genere e la forma di questi vasi vengono raffigurati in diverse foto d'epoca, che documentano il vasto repertorio delle fabbriche dei fratelli Cacciapuoti e Mollica, i quali si dedicavano a riprodurre con amore su questi manufatti in maiolica, scene popolaresche alla Migliaro e vedute con barche alla Pratella, decorandoli con l'applicazione di fiori, frutti, rami, fanciulli e uccellini
Ciò che resta di una decorazione di un grosso vaso da giardino a forma di cono rovesciato, con grappoli d'uva, fogliami, un lui e una lei
44) Naturalismo, serta di Cipolle e Agli in maiolica policroma

produzione Napoletana

primi decenni del 1900


Marca in monogramma

GV
NAPOLI
ITALY
(coronata)
45) Piccola fioriera decorata con festoni, fiocchi e fiori

Napoli

primi decenni del 1900


Probabile manifattura

STINGO
46) Ceramica Artistica “contadini con asinello” manifattura “I Due Fornaciari”

Giuseppe “Peppe” Macedonio
Pittore Ceramista

Napoli

1938
La manifattura “I Due Fornaciari” (1938-1946) venne aperta da Giuseppe Macedonio e Romolo Vetere, in via Case Puntellate 91, nel quartiere Vomero a Napoli.
Quest’opera riflette la chiara influenza Artistica Vietrese, appresa dall’Artista tra il 1928 e il 1934, periodo durante il quale frequentò la manifattura I.C.S. dell’imprenditore Melamerson a Vietri sul Mare (SA).
Le immagini contenute in questo sito sono di esclusivo uso del proprietario - Copyright©



Quanto hai trovato utile questa pagina?

voti



Capodimonte ieri e oggi
testo di Angela Caròla-Perrotti
LE ORIGINI DELLA PORCELLANA

Il mito della porcellana nasce in Europa durante il XIII secolo quando i primi intraprendenti mercanti europei, fra i quali va ricordato il veneziano Marco Polo, decidono di tentare l'avventuroso viaggio verso le terre lontane della Cina e al loro ritorno, insieme a sete pregiate e spezie, portano anche alcuni esempi di vasellame eseguito in questo misterioso materiale.

Non è facile stabilire con esattezza in che epoca sia stata avviata nell'Est asiatico la produzione della porcellana anche se si è generalizzata la consuetudine di circoscriverla intorno all'anno Mille quando apparve un tipo di vasellame ad impasto molto duro e abbastanza chiaro ricoperto di una vernice bianca o marrone, comunemente definito “proto-porcellana”. Va comunque precisato che la messa a punto di questo straordinario prodotto artificiale cinese così come noi lo conosciamo, è il risultato della fusione fra le diverse esperienze dei ceramisti del vicino e del lontano oriente avvenuto nel Duecento a seguito della conquista dei Mongoli. Fu grazie a questi contatti con la Persia e la Mesopotamia che giunse in Cina l'arte di decorare il vasellame con il blu di cobalto, tecnica che, realizzata sul più raffinato impasto caolinico cinese, doveva dare l'avvio a quella spettacolare produzione di porcellane dette in “bianco e blu” che tanto a lungo avrebbe condizionato il gusto dell'Europa. L’ Europa ammira attonita questi rari e preziosi oggetti che tra il XV e il XVI secolo iniziano ad essere importati prima limitatamente dai portoghesi e, successivamente al 1602, anno in cui venne costituita la “Compagnia delle Indie”, sempre più numerosi per soddisfare la crescente richiesta dei raffinati aristocratici europei che morbosamente se li contendevano per le loro eteroclite collezioni racchiuse nei “cabinets de curiositées” o “wunderkammer”. Il successo delle porcellane cinesi trasformò automaticamente il raro materiale di importazione nella maggior fonte d'ispirazione per i ceramisti sia europei che del vicino e medio oriente. Tutta l'arte vasaia a partire dal Rinascimento fino a tutta la prima metà del secolo XVIII, da un lato sembra volta a riprodurre su altro materiale decori e forme che ricalcano quelli più tipici della lontana Cina, e dall'altro con rinnovati esperimenti mostra tenacemente di non volersi arrendere di fronte al nascosto mistero del bianco impasto della porcellana, duro come una pietra semipreziosa bianco e translucido, che continua a rivelarsi inspiegabilmente irriproducibile con le terre dei paesi europei.

Le difficoltà tecniche e chimiche che ne hanno bloccato nel nostro territorio fino ai primi anni dei Settecento la realizzazione, hanno come conseguenza trasformato la porcellana in un materiale mitico intorno al quale sono fiorite favolistiche leggende e coloriti aneddoti che hanno contribuito non poco all'aura di mistero e di preziosità di cui tanto a lungo ha beneficiato la produzione sia cinese che giapponese, tanto che il Barone von Tschirnhaus, un aristocratico sassone, critico nei confronti della dispendiosa passione per la porcellana orientale di Augusto il Forte, non esitò a definire la Cina una “sanguisuga della Sassonia” mentre nel contempo indirizzava l'Elettore verso i più proficui esperimenti per produrla in loco. Tutto ciò avveniva durante l'ultimo decennio del Seicento quando il problema della fabbricazione della porcellana era divenuto oggetto di studio da parte di quella particolare nuova categoria di studiosi naturalisti, che operavano i più disparati esperimenti sotto l'egida delle “Accademie”, in particolare la “Academie des Sciences” di Parigi e la “Royal Society” di Londra. Il Barone von Tschirnhaus apparteneva a questa categoria di uomini politici impegnati culturalmente e fra l'altro fervidi propugnatori di quel mercantilismo divulgato da Colbert che puntava sullo sviluppo delle manifatture reali per la completa auto-sufficienza dello stato. Subito dopo l'ascensione al trono di Augusto il Forte - avvenuta nel 1694 - proprio per questi suoi contatti, venne incaricato dal nuovo Elettore di esaminare le potenzialità minerarie della Sassonia con la finalità di utilizzarle per impiantare nuove fabbriche. In questa atmosfera di ricerche scientifiche e di relazioni accademiche, trovò largo spazio anche una nuova categoria di geniali avventurieri, gli arcanisti, che promettevano sensazionali risultati e in particolare lasciavano intendere di poter trasformare in laboratorio dei vili metalli in oro. Fra questi personaggi, certamente geniali sebbene di pochi scrupoli, riscosse particolare attendibilità proprio con il miraggio di riuscire a tramutare qualsiasi metallo in oro, un giovane sassone, Johann Friedrich Bóttger, che nel 1701, appena diciannovenne, venne letteralmente rapito da Augusto il Forte e sostenuto per qualche anno ad esercitare dispendiosamente le sue discusse capacità alchemiche. Tuttavia quando nel 1707, una volta accertata l'inutilità dei suoi esperimenti, gli venne imposto di lavorare sotto la sorveglianza del Barone von Tschirnhans, le sue conoscenze di tecnico di laboratorio gli permisero di scoprire finalmente - già nel 1708 - il mitico segreto della composizione della porcellana individuando i due componenti basilari dell'impasto, il caolino o il feldspato: il primo inattaccabile anche ad altissime temperature e il secondo fusibile durante la cottura e quindi con l'essenziale funzione di legante per gli infinitesimali granuli caolinici.
Anche l'Europa scoprì quindi così, grazie proprio al “ciarlatano” Bóttger, di cosa erano costituite le “ossa” e la “carne” dello scheletro della porcellana secondo la felice definizione usata dai cinesi per designare il caolino e il feldspato.

DA MEISSEN ALLA REAL FABBRICA DI CAPODIMONTE
(1743-1759)

La fabbrica di Meissen, entrata in attività nel 1710 non riuscì a mantenere a lungo segreta la formula della composizione della porcellana caolinica, ossia di quel tipo di porcellana comunemente detta “La pasta dura”. Le prime informazioni vitali trapelarono già nel 1717, quando Bóttger sotto l'effetto dell'alcool si fece circuire dal doratore C. K Hunger, un collaboratore esterno della fabbrica. Hunger, ottenute le notizie essenziali, si spostò subito a Vienna dove Claudius Innocent Du Paquier desiderava aprire una fabbrica in concorrenza con quella di Meissen. Tuttavia ben presto ci si rese conto che per produrre la porcellana non era sufficiente conoscerne la composizione chimica, ma perché il processo di fusione e di agglomeraggio potesse verificarsi, era essenziale procedere alla cottura in fornaci che consentissero il raggiungimento di temperature altissime, molto superiori a quelle necessarie per le maioliche. Du Paquier quindi per riuscire nel suo intento, dovette attendere fino al 1719 quando anche Stólzel, un tecnico dì Meissen decise di spostarsi a Vienna, portando con se i disegni del forno speciale da porcellana.

La terza fabbrica europea ad entrare in attività fu quella del veneziano Francesco Vezzi, un ricco orafo che approfittando di uno dei tanti litigi fra Du Paquier e Hunger convinse quest'ultimo nel 1720 a spostarsi a Venezia. Oltre a portare con se il segreto alchemico della composizione della pasta e della tecnica di cottura Hunger era certamente in grado di far giungere di contrabbando a Venezia il caolino sassone dalle miniere di Aue. Quando nel 1727 Hunger abbandonò Francesco Vezzi che si trovava in gravi difficoltà finanziarie, rientrando a Meissen svelò alle autorità questo traffico clandestino. Le autorità Sassoni intervennero con severissimi controlli e misure punitive e bloccando da quel momento le esportazioni non autorizzate, segnarono di fatto la fine della agonizzante fabbrica veneziana e costituirono allo stesso tempo una battuta di arresto per i nuovi imprenditori desiderosi di entrare in competizione con la fabbrica reale di Meissen e quella privata del Du Paquier. Fra le prime manifatture europee apertisi nella “seconda ondata” troviamo ancora una fabbrica italiana, fondata a Doccia dal Marchese Carlo Ginori, grazie ad un privilegio che egli riuscì a ottenere dal Granduca di Toscana Francesco III nel 1737, privilegio che gli consentì inizialmente di importare il prezioso caolino e di avviare una produzione sistematica a partire dal 1740. Pochi anni dopo nel 1743 apriva anche la fabbrica borbonica di Capodimonte dove, tuttavia, per aggirare l'ostacolo dell'assenza di caolino, introvabile nelle province meridionali - bisognerà attendere la fine del Settecento per individuarne una cava - si trovò il sistema di mettere a punto un impasto diverso basato sulla riuscita unione di varie argille più o meno tutte fusibili ossia una cosiddetta “pasta tenera”. La manifattura di Capodimonte inizia la sua produzione nel 1743 in un edificio già esistente che l'architetto Ferdinando Sanfelice aveva trasformato con grande rapidità in soli tre mesi. In precedenza, tuttavia, le ricerche alchemiche per individuare la formula più idonea per l'impasto della porcellana si erano protratte per alcuni anni da prima del 1740 - in alcuni locali a ridosso del Palazzo Reale di Napoli dove, secondo i racconti di alcuni storici, Carlo Borbone e la sua consorte Maria Amalia di Sassonia erano soliti seguire e controllare quotidianamente gli esperimenti che il chimico fiorentino Livio Vittorio Schepers andava attuando con le terre che i presidi delle varie province del regno raccoglievano nelle cave locali e inviavano a Napoli. Nel 1743 i risultati raggiunti da Livio Schepers devono comunque essere stati giudicati abbastanza soddisfacenti e tali da ritenere giunto il momento di avviare la produzione in locali idonei, quelli appunto riadattati dal Sanfelice. Abbastanza presto dopo il trasferimento nel parco di Capodimonte inizia una produzione che già da alcuni documenti del 1744 sembra di notevole portata, affidata per i decori pittorici all'abile e raffinato Giovanni Caselli e per il modellato al geniale scultore fiorentino Giuseppe Gricci.

Dal punto di vista tecnico e artistico non vi è dubbio che il successo delle porcellane di Capodimonte va attribuito alla triade Schepers, Caselli e Gricci che seppero in modo felice armonizzare qualità d'impasto, decorazione pittorica e modellato. Le caratteristiche della pasta tenera di Capodimonte, ad alto contenuto feldspatico, vennero sapientemente esaltate dalle belle miniature eseguite in punta di pennello da Giovanni Caselli, che per la capacità propria alla pasta tenera di permettere alla vernice di copertura di “assorbire” la decorazione, si presentano ai nostri occhi con un piacevolissimo e inconfondibile effetto di “sotto vetro”. Anche i problemi di modellato derivanti dall'alta fusibilità dell'impasto che non consentiva di indugiare in minuti dettagli dato che durante la cottura tutti gli spigoli troppo vivi subivano un processo di arrotondamento, vennero brillantemente risolti da Giuseppe Gricci. Costretto a rinunciare a quelle rifiniture prettamente rococò utilizzate felicemente dalle fabbriche tedesche che lavoravano pasta dura - nastri annodati e svolazzanti, trine alle scollature delle dame, mani dalle minute dita ben stagliate - il Gricci si concentrò nell'armonia strutturale delle figure e nel movimento delle composizioni trasformando i limiti propri dell'impasto di Capodimonte nell'elemento di maggior fascino. In occasione della mostra del 1986 “le Porcellane dei Borboni di Napoli” ho ritenuto essenziale dare particolare risalto alla ricostruzione delle fonti di ispirazione che condizionarono in modo particolare proprio Gricci. L'indagine capillare condotta in quell'occasione ha dimostrato che esse sono riconducibili essenzialmente a tre indirizzi artistici: al rinnovato linguaggio “classicista” e “naturalista” divulgato dai Carracci e raccolto in precedenza da un'ampia fascia di artisti seicenteschi; al tema della quotidianità scoperto sotto le istanze rococò del Settecento e poi propagato da artisti di varia nazionalità tanto italiani (Pietro Longhi) che francesi (Chardin, Natoire) e inglesi (William Hogarth); infine a due artisti, diversi e affini allo stesso tempo, Giovanbattista Piazzetta e Antoine Watteau, impareggiabili descrittori, il primo di un mondo pastorale nel quale personaggi di diverse classi sociali sono colti con profonda sensibilità, e il secondo, illustratore del mondo dei sogni e degli studi d'animo. A questi tre indirizzi generali, vanno aggiunti per i temi sacri le grandi fonti barocche toscane e romane, e per la commedia d'arte quegli artisti che sotto l'emozione di determinati spettacoli teatrali ne avevano immortalate le formule: in Francia ancora Watteau e a Firenze il violento e suggestivo Gian Domenico Ferretti.

Benché l'apporto personale di Giuseppe Gricci sia quello che con maggiore forza si palesa quando si vuole procedere per una valutazione artistica delle porcellane di Capodimonte, alcune considerazioni collaterali mi hanno portato a credere che l'influsso di Giovanni Caselli deve essere stato determinante anche sul capo modellatore. Non può essere una casuale coincidenza che quelle plastiche da noi oggi ritenute i capolavori di Gricci siano state tutte eseguite negli anni immediatamente precedenti o successivi, al 1750, ossia prima della morte del Caselli avvenuta nel 1753. E mi riferisco alla serie dette “Le voci di Napoli”, “La vita domestica”, “La commedia dell'arte” e i gruppi galanti, ossia a quei modelli caratterizzati da figure molto longilinee, definite anche in gergo dagli amatori “a testa piccola” per il particolarissimo rapporto esistente tra la testa ed il corpo dei personaggi. Negli ultimi anni di Capodimonte, successivamente al 1755, e durante il primo decennio di attività della fabbrica del Buen Retiro, le plastiche di Gricci, oltre a non presentare più questa felice caratteristica sono articolate in composizioni più classiche caratterizzate dalla perdita degli elementi umoristici e romantici più propri del periodo napoletano e che trovano invece puntuali riscontri nelle miniature che eseguiva Caselli.

Nel 1759 Carlo di Borbone, chiamato alla morte del fratellastro ad occupare il trono di Spagna con grande magnanimità lasciò a Napoli la preziosa raccolta Farnese e sostanzialmente tutto il patrimonio artistico locale da lui potenziato. Costituiranno l'unica eccezione le strutture amovibili della manifattura di Capodimonte, i relativi materiali esistenti nei magazzini, le forme, ma soprattutto i prestigiosi artefici che avevano reso possibile il miracolo Capodimonte: uomini e cose vengono imbarcati su tre tartane al seguito del sovrano e, sistemati in un edificio al Buen Retiro, dove in meno di un anno, furono in grado di riprendere l'attività interrotta sul suolo napoletano.

LA REALE FABBRICA FERDINANDEA

Partendo da Napoli re Carlo, oltre a portare al suo seguito in Spagna quanto era trasportabile dalla Fabbrica di Capodimonte, aveva esplicitamente cercato di rendere inagibili le strutture fisse, sia perché dalla Spagna egli ormai temeva che una ripresa di produzione della porcellana a Napoli potesse rivelarsi una temibile concorrente per quella del Buen Retiro, e sia per il morboso attaccamento riservato alla sua più riuscita manifattura napoletana. Quindi per tutto il periodo della reggenza, con Ferdinando IV giovane ragazzo - al momento della partenza del padre Ferdinando aveva solo nove anni - il progetto di una nuova fabbrica per la porcellana non si pose nemmeno sebbene molti degli antichi lavoranti di Capodimonte rientrati dalla Spagna, scrivessero lettere per ottenere sussidi o per suggerire di rinverdire una tradizione che tanto lustro aveva dato alla corona al tempo di Carlo. Si dovette però attendere la maggiore età di Ferdinando IV perché il giovane re potesse iniziare a prendere delle iniziative autonome sottraendosi al pesante controllo che il padre esercitava dalla Spagna attraverso il suo fidatissimo ministro Bernardo Tanucci che quotidianamente lo informava epistolarmente dei più minuti avvenimenti napoletani. Tra le prime decisioni autonome di Ferdinando vi fu però l'apertura di una nuova fabbrica di porcellana, i cui esperimenti iniziali vennero addirittura condotti in un ufficio in gran segreto all'insaputa del ministro Tanucci proprio per evitare che dalla Spagna giungesse un veto prima che si fossero ottenuti dei risultati. Soltanto nel 1773 quando si erano già risolti sia i problemi tecnici che quelli diplomatici con Carlo, la nuova fabbrica venne spostata a Napoli e iniziò la sua effettiva produzione. Prima di addentrarci in un esame dettagliato di questa seconda produzione napoletana va precisato che, mentre la produzione della precedente fabbrica di Capodimonte può essere considerata come rispondente a caratteri stilistici unitari per la brevità del suo periodo di attività, le porcellane della Real Fabbrica Ferdinandea appaiono stilisticamente suddivisibili in tre ben diversi periodi: il primo dal 1773 al 1780 quando la direzione artistica venne affidata al celebre pittore e scultore Francesco Celebrano - il cui ruolo si rivelerà determinante soprattutto ai fini formativi per la nuova generazione di plasticatori - e l'effettiva conduzione amministrativa a Tommaso Perez; il secondo e felicissimo periodo della direzione di Domenico Venuti - dal 1780 al 1799 - in coincidenza con l'aureo ventennio nel quale si ebbe il momento di maggiore fioritura di tutte le arti napoletane oltre al grande exploit della Real Fabbrica Ferdinandea della porcellana; infine gli ultimi e difficili anni - dal 1800 al 1806 – fortemente marcati dalle vicissitudini della Repubblica Partenopea e dalle difficoltà finanziarie del Regno e in particolare dalla perdita delle rendite personali di Casa Reale legate alla eredità di Gastone dei Medici. La produzione del periodo Perez (1773-1780) dal punto di vista stilistico, risulta sostanzialmente indirizzato su due filoni: da un lato vi è un nostalgico guardare indietro alla produzione della precedente manifattura di Capodimonte, con risultati di sorprendente affinità anche dovuti alla somiglianza di pasta e alla medesima tecnica puntiforme usata per le decorazioni; dall'altro vi è una certa tendenza a seguire la moda più attuale imitando specialmente nel vasellame la produzione della manifattura francese di Sèvres che durante la seconda metà del settecento fini con l'assumere il ruolo di fabbrica-pilota detenuto in precedenza da Meissen.

Entrambi i generi, benché oggi siano rivestiti ai nostri occhi del fascino della rarità - pochissimi sono gli esemplari giunti a noi e le loro stesse imperfezioni tecniche rappresentino un elemento di impareggiabile attrazione, denunciano comunque che la nuova fabbrica non aveva ancora individuato un proprio stile. Anche le poche figure plastiche che con certezza possiamo attribuire al periodo Perez sembrano avere come maggiore caratteristica l'assenza di costanti stilistiche unita alla mancanza di qualsivoglia norma per ciò che concerne le dimensioni delle figure: alcune decisamente piccole e minute, altre direi statuarie. Questa mancanza di ripetitività e la consuetudine di non marcare le plastiche - se non molto raramente ha lasciato nell'anonimato molto a lungo alcune pur bellissime figure mentre altri splendidi modelli del Celebrano, a causa dell'affinità di pasta, con la precedente fabbrica di Capodimonte, o sono state a lungo attribuite a quest'ultima, o alla fabbrica del Buen Retiro.

Quando negli ultimi mesi del 1779 morì Tommaso Perez, venne chiamato a sostituirlo il marchese Domenico Venuti che però oltre ad assumerne il medesimo ruolo tecnico-amministrativo rivestito dal suo predecessore, abbracciò anche quello ben più complesso della supervisione artistica. Per il Celebrano la decisione reale - certamente inattesa - fu dura e difficile da accettare ma obiettivamente il grande exploit della Real Fabbrica Ferdinandea, non a caso resta legato proprio al nome di Venuti e al periodo della sua direzione, ossia al felice ventennio 1780-1800.

Poco più di un anno dopo la nomina di Domenico Venuti a Intendente della fabbrica di porcellana - e sembra per suo esplicito volere - la materiale direzione artistica venne suddivisa fra due note personalità, Filippo Tagliolini e Giacomo Milani. Al primo, scultore affermato, con al suo attivo esperienze nelle fabbriche di porcellana di Vienna e Venezia, si affidava la direzione del modellato; al secondo veniva confidata la responsabilità della “Galleria dei pittori”. Parallelamente si procedeva alla riorganizzazione delle strutture primarie: sappiamo che nel luglio del 1780 “due tedeschi”, specialisti della fabbrica di Vienna, si dedicavano ai vari esperimenti per migliorare la pasta della porcellana mentre sotto la loro consulenza si costruivano nuove fornaci. Altri tecnici vennero chiamati dalla Toscana - molti erano i contatti di Domenico Venuti con questa regione in quanto apparteneva ad una nota famiglia Cortonese e in particolare si cercò di attirare a Napoli i migliori ceramisti della Fabbrica di San Donato che intorno al 1780 chiudeva, oltre che dalla stessa fabbrica dei marchesi Ginori a Doccia.

Tuttavia indubbiamente l'aspetto più interessante della revisione del Venuti, fu la felice intuizione di trasformare la manifattura Reale in una scuola d'arte avanti lettera. Il primo passo in questa direzione fu l'istituzione della “Accademia del nudo” nella quale in corsi pomeridiani tenuti da Costanzo Angelmí, direttore dell'Accademia di Belle Arti, si insegnavano tecnica e regole del disegno e del modellato in relazione alla anatomia. Gli artisti maggiormente dotati venivano in un secondo momento mandati, a spese della Corona, a perfezionarsi presso gli ateliers dei più noti artisti cittadini, oppure a Roma dove potevano, a completamento della loro istruzione, riprendere dal vero le opere d'arte antica dei Musei Capitolini e i monumenti più noti della città. La manifattura intanto, pur rimanendo sostanzialmente la fabbrica della porcellana, si articolava in nuove lavorazioni collaterali come una piccola officina per la lavorazione degli acciai e un settore dedicato alla “creta all'uso inglese”, ossia a un tipo di terraglia bianca affine all'earthenware. In aggiunta, negli anni seguenti, con l'arrivo a Napoli delle sculture antiche in precedenza conservate a Roma nel Palazzo Farnese, venne organizzato un piccolo laboratorio di restauro per queste opere delle quali si era anche soliti eseguire perfetti calchi in gesso destinati alle varie Accademie cittadine.

Per ciò che concerne i motivi decorativi, l'azione di Venuti fu determinante ai fini della caratterizzazione della produzione. Egli riuscì ad infrangere una consuetudine ormai stratificata in tutte le manifatture di porcellana europee, attuata anche a Capodimonte, che consisteva nel riprendere per i manufatti ceramici scene pittoriche da incisioni già note, e invece, capovolgendo il rapporto, seppe trasformare i motivi creati per la porcellana in modelli dai quali si incidevano splendidi rami che circolando nell'ambiente colto europeo divennero essi stessi una grande fonte di ispirazione anche nei paesi di oltr'Alpe. Va ricordato che Domenico Venuti era un uomo di grande cultura, e figlio di quel Marcello Venuti che aveva dato l'avvio al tempo di Carlo di Borbone ai primi scavi di Ercolano. Rimasto orfano giovanissimo era stato educato a spese della corona nella Regia Paggeria di Napoli, istituzione nella quale venivano formati i migliori funzionari del Regno. Ciò spiega da un lato il suo grande amore per l'antico, e dall'altro, la predisposizione a cogliere gli aspetti più interessanti della cultura e delle tradizioni locali. Questi due indirizzi stilistici, sommariamente riconducibili all'archeologia e al folklore, trovarono i maggiori mecenati, il primo nella Regina Maria Carolina, e il secondo nello stesso Ferdinando IV. Di conseguenza in occasione delle grandi commesse reali, Venuti con meticolosa e colta sensibilità rivolse la sua attenzione innanzi tutto verso il patrimonio artistico dei Borbone - gli affreschi pompeiani ed ercolanesi per il “Servizio Ercolanese” mandato in dono a Carlo III in Spagna nel 1783 e la raccolta di vasi antichi della collezione borbonica per il “Servizio Etrusco” mandato in dono a Giorgio III d'Inghilterra nel 1787 - e a seguito di espliciti dispacci reali emessi da Ferdinando, verso la documentazione iconografica delle Testiture del Regno nonché delle più belle vedute di Napoli, dei suoi dintorni, e dei più importanti monumenti archeologici del Regno delle due Sicilie.

Parallelamente quindi ai servizi ispirati a pitture, bronzi, vasi e sculture di provenienza archeologica si eseguì tra il 1784 e il 1787 il primo “Servizio delle Vestiture” per il quale i pittori Alessandro D'Anna e Antonio Berotti ritrassero dal vero “a gouache” le varie fogge dei vestire in uso a Napoli e nella provincia di terra di lavoro. Successivamente Antonio Berotti con Stefano Santucci continuarono la loro minuziosa documentazione iconografica spostandosi capillarmente per quasi undici anni attraverso i più piccoli e isolati centri abitati. La spedizione di questi due pittori itineranti che si protrasse fino al 1797, fornì a Venuti un preziosissimo materiale che permise di realizzare altre versioni con le figure popolaresche sempre più ampie e complete. Anche il motivo della veduta venne codificato prima da D'Anna e poi da Berotti e Santucci in contemporanea a quello delle vestiture regionali e ripreso in seguito con successo anche da altri artisti cittadini fra i quali va annoverato lo stesso direttore della galleria dei pittori, Giacomo Milani. I soggetti delle plastiche, quasi tutte eseguite secondo la moda del tempo in serie nate per comporre i dessert da centro-tavola, venivano eseguiti dallo scultore Filippo Tagliolini e da quello scelto gruppo di artisti che si erano formati alle dipendenze di Celebrano nello stesso stile dei servizi di piatti ai quali dovevano accompagnarsi. Abbiamo così tutto l'ampio campionario costituito dai reperti di Pompei e della raccolta Farnese utilizzato per figure in biscuit da abbinarsi ai servizi ispirati all'antico, e una colorita e vivace rappresentanza di contadini e di uomini e donne del napoletano destinati ai servizi con le Vestiture dei Regno e a quelli con vedute. Una particolare menzione merita il “dessert del Real Passeggi” che Filippo Tagliolini eseguì tra il 1795 e il 1800 per completare il “Servizio delle vedute Napoletane” - più noto come servizio dell'Oca quindi destinato alla tavola dello stesso Ferdinando IV. Il successo incontrato dal repertorio figurativo individuato da Venuti fu enorme anche perché rappresentava il perfetto “souvenir” che il turista colto del “Grand Tour” amava portare con sé rientrando in patria. E proprio grazie a tale circostanza collaterale questi prototipi, sebbene in parte aggiornati secondo il gusto ottocentesco, continuarono ad essere ripetuti per oltre cinquant'anni soprattutto dai tanti decoratori che nell'ottocento si dedicarono alla pittura su porcellana. Nel 1800 al rientro a Napoli dei Borbone dopo il breve esilio causato dalla Rivoluzione dei 1799, Domenico Venuti, accusato di aver collaborato con le truppe francesi, veniva destituito dalla carica di Intendente. La direzione della Real Fabbrica Ferdinandea, dopo un breve interregno, veniva affidata a Don Felice Nicolas che nonostante le gravi difficoltà finanziarie riusciva a mantenerla in attività fino al 1806. Con l'arrivo dei Francesi, che avvenne appunto, nel dicembre del 1806, la Real Fabbrica Ferdinandea termina ogni sua attività. Nel 1807 vengono pagati i lavori lasciati incompleti dagli artisti, si compilano gli inventari di tutta la produzione esistente nei locali della fabbrica, e Giuseppe Bonaparte, nel maggio dello stesso 1807, firma il contratto di cessione della privativa della porcellana ad una società di privati rappresentata dallo svizzero Giovanni Poulard Prad.

POLIEDRICITA’ DELLA PRODUZIONE CERAMICA NELL’800

Mentre per il periodo aureo della porcellana napoletana dei Settecento si è potuto tracciare un riepilogo cronologico seguendo con ordine l'evoluzione stilistica e qualitativa della produzione borbonica, si rileva al contrario estremamente più problematico riassumere eventi, trasformazioni estetiche e fonti d'ispirazione della produzione ceramica ottocentesca.

I traumatici e ripetuti sovvertimenti politici che si susseguirono a ritmo incalzante per tutta la prima metà del secolo fino all'Unità d'Italia si ripercossero in profondi rivolgimenti anche nella vita quotidiana napoletana. Se è vero che la classe degli aristocratici, sebbene duramente colpita dalla eversione della feudalità, riuscì a mantenere importanti posizioni politiche, è anche vero che negli incarichi ufficiali accanto ai nomi delle nobiltà, cominciano ad apparirne altri, del tutto nuovi e senza blasone. La ricchezza reale caratterizzata dalla disponibilità di danaro liquido, era infatti passata nelle mani di quella parsimoniosa borghesia cittadina e provinciale che investiva i suoi capitali in quei terreni resisi disponibili dall'esproprio dei beni ecclesiastici o dai latifondi che l'aristocrazia era costretta a vendere per continuare a mantenere il suo dispendioso tono di vita. Allo stesso tempo la monarchia di Murat non poteva permettersi di sovvenzionare manifatture reali dovendo continuamente far fronte alle pressanti richieste di danaro che Napoleone dalla Francia richiedeva per le sue campagne belliche. In un panorama così mutevole e instabile non sorprenderà quindi che anche in ambiti minori si risentissero contraccolpi negativi. Per ciò che concerne la porcellana, come si è già accennato, il governo francese firma nel 1807 l'atto di cessione della privativa per la fabbricazione della porcellana a dei privati rappresentati da Giovanni Poulard Prad. Come sede viene dato ai concessionari l'ex Monastero di S. Maria della Vita - divenuto oggi l'ospedale San Camillo - dove la produzione riprende tra notevoli difficoltà economiche. Fra l'altro nel contratto di cessione il nuovo governo francese, per garantire un minimo di vendita alla società, aveva promesso di effettuare acquisti di porcellane corrispondenti ad un imposta mensile di 1000 ducati mentre da parte loro i concessionari si erano impegnati ad assumere tutto il personale della precedente Real Fabbrica Ferdinandea.

Tuttavia abbastanza rapidamente Murat, a causa della situazione politica, non fu in grado di mantenere l'impegno dell'acquisto mensile e di conseguenza Poulard Prad non riuscì a tener fede a quanto promesso nei confronti degli antichi ceramisti. Questa crisi aziendale in un certo senso ineluttabile, costrinse gli operai formatisi alle dipendenze della manifattura reale ad imboccare le strade alternative della lavorazione della terraglia o della decorazione su porcellane prodotte all'estero e importate bianche proprio a tal fine. La straordinaria preparazione sia tecnica che artistica di questa sfortunata classe artigiana trovò così modo di dar vita ad una vasta e articolata produzione di ceramiche che la nuova classe abbiente cittadina apprezzò moltissimo anche per i prezzi diversificati rispondenti alle diverse possibilità economiche degli acquirenti. Nei circa cinquant'anni che intercorrono tra la chiusura della Real Fabbrica Ferdinandea e l'Unità d'Italia, Napoli riuscì così a tener viva molto felicemente l'antica tradizione settecentesca, prima con le belle porcellane Poulard Prad dove tra ricche e più ottocentesche dorature ritroviamo i felici soggetti ferdinandei miniati con altrettanta perizia pittorica. Sono le vestiture regionali, le vedute e i decori pompeiani individuati e codificati durante la direzione Venuti che ancora una volta conquistano per la loro “napoletanità” sia i raffinati turisti che la nuova ricca borghesia cittadina. Successivamente al fallimento e alla chiusura della fabbrica di Santa Maria della Vita, questi stessi temi li ritroviamo ancora a lungo, fino a metà '800, dipinti con tecnica sempre più raffinata da quella ristretta cerchia di miniaturisti che ruotava intorno ai laboratori di Raffaele Giovine, Francesco Landolfi, Gennaro Cioffi, Salvatore Mauro, Sebastiano Cipolla, e tanti altri ancora.

Parallelamente i lavoranti più specificatamente tecnici imboccavano la strada della lavorazione della terraglia, ora associandosi con i Del Vecchio o i Giustiniani che già da alcuni decenni si dedicavano a questa lavorazione, o aprendo altre fabbriche a carattere più o meno familiare in concorrenza con essi. Una particolare menzione meritano i Migliolo, i Mollica e i Colonnese: i primi associandosi inizialmente ai Giustiniani produssero splendide terraglie decorate nello stile ferdinandeo sia con vedute che con scene popolaresche marcate FMGN (Fabbrica Migliolo Giustiniani Napoli), i Mollica eccelsero principalmente nella lavorazione delle terre cotte a figure rosse o a figure nere alla maniera dei vasi di scavo mentre i Colonnese vanno ricordati più che per il vasellame, per le belle “riggiole” alla napoletana.

DALL’UNITA’ D’ITALIA A OGGI: LA NASCITA DELLO STILE NATURALISTICO DETTO “CAPODIMONTE”

Ai fini della produzione ceramica napoletana, l'Unità d'Italia viene a chiudere con una data storica un ciclo produttivo che di fatto si era andato lentamente estinguendo a partire dal 1850. Dopo il brillante exploit settecentesco che grazie alle manifatture borboniche aveva posto le nostre porcellane ai più alti livelli artistici permettendo loro di contendere il mercato a quelle di Meissen e di Sèvres, la produzione napoletana aveva potuto affrontare ancora brillantemente la prima metà dell'Ottocento grazie agli artisti e ai tecnici formatisi all'ombra della Real Fabbrica Ferdinandea sotto la guida di Domenico Venuti. Ma via via che a questa prima generazione di operai si erano andate sostituendo le nuove leve, inevitabilmente cominciò a delinearsi una certa “decadenza” caratterizzata da aspetti di provincialismo. Chiusesi per fallimento nel 1848 la fabbrica Giustiniani e poco dopo intorno al 1855 quella dei Del Vecchio, possiamo dire che venne bruscamente interrotta la trasmissione diretta dei mestiere da padre in figlio e benché sul piano tecnico i giovani risultino ancora in grado di lavorare bene, sul piano creativo appaiono fortemente limitati.

Ma anche la materia non è più la stessa: la porcellana è del tutto scomparsa dopo gli ultimi prodotti che i Giustiniani, associati ai del Vecchio, avevano sfornato tra il 1830 e il 1840 e anche la “terraglia all'uso inglese”, che con tanto successo era entrata nelle case cittadine più agiate, non viene più lavorata. Le varie piccole industrie cittadine lavorano un impasto di terra più simile alla maiolica che presenta pochi problemi di foggiatura e di cottura ma che non si presta più alla esecuzione di servizi di piatti e in genere al funzionale vasellame da tavola che era stato il maggior vanto della produzione locale durante i primi cinquant'anni dell'Ottocento.

Ci sentiamo di affermare quindi che è proprio a partire dal 1850 che si va affermando a Napoli un genere di prodotto ceramico puramente decorativo e voluttuario come i piatti da muro, le figurine e gli elementi architettonici nati per essere inseriti nei “moderni” edifici. In partenza questa evoluzione della produzione trovò terreno fertile nell'evolversi del gusto tendente ormai apertamente verso i “Revivals” e che bene esprimevano la situazione sia sociale che politica degli anni dell'Unità italiana caratterizzata da vive contraddizioni, causate fondamentalmente dal contrasto tra le esigenze del nascente capitalismo industriale e la realtà di un paese come l'Italia ancora contraddistinto da marcate differenze di vita e di costume tra le regioni del Nord e quelle del Sud. Sul piano culturale tali ambiguità dettero vita a nuovi e diversi tentativi di rilettura del passato, in particolare la riscoperta di una cultura popolare (che nelle intenzioni aveva la finalità di nobilitare le classi più umili e operaie e di avvicinarle a quella imprenditoriale) e la rilettura di un passato aulico e storicistico che sfociò nella romantica produzione neo-gotica e neo-rinascimentale.

Il mondo della ceramica più delle altre branche delle arti cosiddette “minori” venne dilaniato da queste diverse e contrastanti correnti culturali che a seconda delle particolari realtà regionali spinse i suoi artefici verso generi anche molto diversi ma in stretta relazione sia con la situazione locale in cui essi operavano e sia rispondenti alle esigenze di un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo. Ne conseguì che nel centro e nord d'Italia il gusto del “Revival” venne maggiormente sentito e si sviluppò in contrapposizione al “Naturalismo” e al “Terismo” più vicino al sentire degli artefici meridionali. Ciò non avvenne a caso: tutti i movimenti nostalgicamente evocativi del passato, siano essi il neo-classico il neo-rinascimentale il neo-rococò, al di là del loro programma etico-estetico, sono sempre stati la via per la riscoperta di una tradizione artistica nazionale. In altre parole, tali movimenti hanno sempre coinciso con la nascita e il diffondersi del concetto di nazionalismo. Non stupisce quindi che l'andare a ritroso nel tempo sia risultato più naturale in quelle regioni italiane che dall'Unità nazionale ebbero diretti e più immediati benefici. Al “Sud”, anche se in maniera inconscia, la situazione di delusione e scontento si manifestò in due modi: concentrandosi su quella prosaica realtà quotidiana fatta di piccola veristica aneddotica, o sulla esaltazione del “Naturalismo”, movimento peraltro anche molto attuale in quegli anni nei quali il “liberty” andava diffondendosi.

In questa sede si è voluto dare particolare evidenza al passaggio dai prototipi di derivazione settecentesca a quelli del periodo post-unitario in quanto la lavorazione dei fiori che ancora oggi costituisce il fulcro della produzione ceramica napoletana che con nostalgia, sebbene impropriamente, viene in tutto il mondo denominata “Capodimonte”, discende per i rami dalla evoluzione stilistica verificatisi proprio in quell'ultimo difficile ventennio del secolo scorso.

LA RINASCITA DELLA TRADIZIONE CERAMICA

Come già accennato, l'Unità d'Italia sorprende Napoli in un momento di crisi artistica. Riporta Cesare Tropea nel suo saggio del 1941 “Il Museo artistico Industriale e il Regio Istituto d'arte di Napoli” che gli scrittori del tempo affermavano che dell'arte applicata non era rimasta che la tecnica.

Già nel 1853 Carlo Santangelo, in un suo intervento all'lstituto di Incoraggiamento, notava con rammarico che la fabbricazione delle porcellane non esisteva più in Napoli per deficienza di organizzazione e di capitali e che le stoviglie importate dall'estero avevano invaso il mercato causando il tramonto della produzione locale. Il Santangelo con grande intuizione, ritenendo che queste arti “hanno bisogno del disegno lineare che manca ai nostri artisti, poiché mancano fra noi le scuole industriali”, denunciava il disinteresse delle istituzioni e si faceva portavoce di provvedimenti al riguardo. li discorso veniva ripreso un decennio più tardi da Giuseppe Novi che ribadiva la necessità di istituire scuole d'arte con annesso Museo dove i giovani allievi potessero nel contempo imparare la tecnica e conoscere le opere d'arte del passato. Va inoltre ricordato che Novi sosteneva con lungimiranze anche la necessità di creare una cattedra di ceramica nell'ambito dell'Accademia di Belle Arti.

Dopo l'Unità d'Italia, nel programma più vasto di revisione generale dell'istruzione artistica nazionale e in concomitanza con la prima “Esposizione di opere d'Arti Belle” venne organizzato a Parma, nel settembre del 1870, il Primo Convegno Artistico. In quell'occasione tutte le città mandarono opere dei loro migliori artisti ma soprattutto i rappresentanti dei Ministero della Pubblica Istruzione e i vari Componenti del Comitato, gettarono le basi del nuovo programma di formazione da cui scaturì il progetto di trasformazione delle Accademie di Belle Arti in Istituti d'Arte da affiancare a sistematiche Esposizioni che a turno si sarebbero tenute nelle maggiori città italiane. Fu cosi che a Napoli nel 1877 venne organizzata la grandiosa “Esposizione dell'Arte Antica Napoletana” e, grazie al prestito delle più importanti famiglie della città, vennero esposte le eccezionali raccolte private di arte applicata. In particolare le porcellane, grazie alle raccolte del Duca di Martina de Sangro, dei Conti Correale, della Duchessa di Bivona e del Principe Filangieri, spiccavano per la loro straordinaria bellezza. Ne consegui che i maggiori esponenti del comitato organizzativo, guidati dal Principe Filangieri, si mossero a livello nazionale per ottenere che a Napoli venisse al più presto aperto un Istituto di formazione artistica. Grazie anche all'appoggio del Ministro De Sanctis già nel novembre del 1878, con Regio Decreto, veniva modificato l'ordinamento dell'Istituto di Belle Arti di Napoli e suddiviso in due sezioni; la prima con le scuole di pittura, scultura, architettura, e la seconda dedicata all'insegnamento del disegno e con le scuole di pratica applicazione. Con un successivo decreto ministeriale dell'ottobre del 1880 veniva istituito il Museo Artistico Industriale con le annesse scuole officine. Il Consiglio Direttivo presieduto dal Principe Gaetano Filangieri di Satriano nominava Direttore del Museo per gli acquisti e la raccolta dei lasciti di opere antiche l'artista Domenico Morelli mentre, per l'insegnamento della lavorazione della ceramica, si fece ricorso al noto pittore Filippo Palizzi.

Tali scelte dovevano ben presto dare i loro frutti. L'officina della Ceramica svolse con successo per almeno un ventennio il doppio ruolo di scuola e di fabbrica dove, servendosi anche di ceramisti esterni operanti in quegli anni a Napoli, si eseguivano grandi opere progettate da Palizzi, da Morelli o da Tesorone. Questa istituzione, tuttora esistente nella nostra città, svolse un ruolo determinante nel mantenere viva la tradizione ceramica. Le opere oggi conservate nella stessa sede ottocentesca di Piazzetta Salazar, illustrano bene l'impegno con cui maestri e allievi si dedicavano all'arte del gran fuoco.

Qualche dato su fabbriche e ceramisti attivi a Napoli a fine Ottocento:

La Fabbrica Mollica

La fabbrica dei fratelli Mollica venne aperta, in via Santa Lucia 18, intorno al 1842 da Giovanni, figlio di Pasquale Mollica, un ex lavorante della Real Fabbrica Ferdinandea divenuto poi capo operaio dei Giustiniani.

La produzione di questa fabbrica rimase di preferenza legata al vasellame in “terraglia” e in terra cotta rossa. il primo periodo è caratterizzato da oggetti molto simili a quelli usciti dalle fabbriche del Vecchio e Giustiniani; particolarmente belli e di qualità i vasi di gusto attico, prodotti sulla scia del fiorente filone della riscoperta dei classico. Con i figli di Giovanni, Ciro, Achille e Alessandro, che conducono la fabbrica durante la seconda metà dell'800, la produzione appare indirizzata principalmente verso una imitazione delle maioliche di Castelli e di Urbino. Dei tre fratelli, Achille riscuote particolari riconoscimenti per le sue decorazioni pittoriche nelle varie esposizioni italiane degli ultimi anni dell'Ottocento. I suoi oggetti, legati al tipico filone dei “Revival”, stupiscono i contemporanei oltre che per la felice mano nel dipingere - era stato un allievo dell'Istituto di Belle Arti - per la notevole perizia tecnica che gli consentiva di realizzare forme particolarmente ardite.

La Fabbrica Mollica continuerà la sua attività brillantemente nel nuovo secolo, fino al 1978 quando nuove e insormontabili difficoltà di gestione la costringeranno a interrompere la sua produzione.

A questa manifattura va riconosciuto il merito di aver svolto, tra il 1950 e il 1970, un importante ruolo divulgativo delle porcellane dette di “Capodimonte” individuando per prima le lavorazioni “a fettuccia” e dei fiori a tutto tondo modellati a mano.

La Fabbrica Cacciapuoti

La fabbrica venne aperta da Guglielmo e Ettore Cacciapuoti, i figli di Giuseppe, un buon incisore di cammei passato alla ceramica in seguito al suo matrimonio con una figlia di Giovanni Mollica.

La fabbrica dei fratelli Cacciapuoti è fra le più note nell'ultimo ventennio dell'Ottocento per la sua produzione di plastiche e di vasellame. La documentazione ottocentesca giunta a noi è scarsa, ma da ciò che è stato possibile rintracciare, si deduce che questa produzione di ceramica è quella che presenta maggiori punti di contatto con la pittura dell'epoca. Scenette popolaresche alla Migliaro e vedute con barche alla Pratella vengono con amore e perizia riprodotte su piatti di maiolica che riflettono appieno la situazione culturale cittadina. Parallelamente alla produzione di placche e piatti dipinti, i fratelli Cacciapuoti presentarono, alle varie esposizioni nazionali, un grande assortimento di anfore e di figure femminili abilmente modellate, affiancate da putti e ricca vegetazione sia terrestre che marina, produzione che fece ottenere ai nostri, in più occasioni, medaglie e premi di incoraggiamento.

Intanto, Cesare Cacciapuoti, il terzo figlio del capostipite Giuseppe, mentre i due fratelli avviano in proprio la fabbrica prima descritta, si associa ad un fabbricante di stoviglie già attivo a Napoli, lo Schioppa, e con lui dà l'avvio ad una produzione di oggetti più minuti, detti “statuine-giocattolo”, che rispondevano maggiormente alle esigenze della piccola borghesia napoletana. Nei primi decenni del nostro sécolo, Cesare Cacciapuoti si sposta a Milano dove i suoi due figli, Mario e Guido aprono, nel 1927, associandosi con Angelo Bignami una interessante manifattura denominata “Grès d'arte Cacciapuoti” successivamente divenuta la “Ceramiche e grès d'arte Cacciapuoti”. Tale manifattura, tra alterne vicende, ha continuato a lavorare fino agli anni '70.

La Fabbrica Mosca

La famiglia Mosca, prolifera di ceramisti, fu partecipe a varie attività private e molti dei suoi componenti diressero manifatture contrassegnate anche da altri nomi di fabbrica. L'attività della vera e propria fabbrica Mosca, inizia intorno al 1865 con il nome di R. Mosca e C., dopo poco però la ditta si scioglie per riaprire sotto il nome “Fratelli Mosca” e passare, sempre nel 1865, proprio al N' 14 di Via Marinella, già sede della celebre manifattura Giustiniani. Insieme ai locali la “Fratelli Mosca” eredita dai Giustiniani oltre che dai Del Vecchio numerosi lavoranti specializzati.
Luigi Mosca dirige questa manifattura, che nel suo indirizzo generale tende a ridurre la produzione degli oggetti, per incrementare quella fortunatissima dei quadrelli per pavimenti. Va anche ricordato che egli mise a punto un vaso igienico chiamato volgarmente il w.c. Mosca - considerato all'epoca tanto rivoluzionario da meritargli numerosi premi e una medaglia d'oro dell'istituto d'Incoraggiamento. Risulta quindi evidente che questa fabbrica dette particolare importanza alla produzione funzionale, intuendo fra le prime, che il futuro della ceramica non lasciava molto spazio all'artista, e che era più logico servirsi di essa per abbellire si, ma principalmente rendere più pratiche le abitazioni.

La fabbrica di Enrico Delange e la “Industria Ceramica Napoletana”: due attività di Giuseppe Mosca

Giuseppe Mosca, al contrario di suo fratello Luigi (proprietario e direttore della fabbrica Mosca) riveste un ruolo molto importante nella storia della ceramica artistica cittadina. li suo curriculum inizia quando il francese Enrico Delange verso il 1872 decide di aprire una fabbrica e gliene affida la direzione. Il Delange in precedenza si era appoggiato alla fabbrica Mosca facendovi eseguire pavimenti, su suoi disegni che poi smerciava sul mercato parigino. Evidentemente l'iniziativa si era dimostrata valida tanto da spingerlo ad aprire una fabbrica in proprio. Ma pochi anni dopo, nel 1880, il figlio di Delange, forma una società, chiamata “Ceramica Architettonica e Artistica”, con l'architetto Diego Calcagno e decide di occuparsi di persona della produzione, che consisteva in pavimenti semplici e artistici, stufe, caminetti, portali e fregi prevalentemente in stile turco.

Giuseppe Mosca, lasciata quindi la manifattura di Enrico Delange passa alla direzione della “Industria Ceramica Napoletana”. Alle spalle di questa iniziativa esisteva una società formata dal conte Candida Gonzaga, dal Principe Capece Minutolo e dal marchese Lignola oltre che da altri soci. Purtroppo nel giro di una decina d'anni subentrarono gli inevitabili attriti fra gli azionisti e l'iniziativa fallisce intorno al 1890. Eppure questa fabbrica fu l'unica, a mio parere, ad avere una produzione plastica ad un certo livello artistico e di notevole impegno tecnico. Le sue ceramiche sono le sole ad avere un respiro più ampio, meno “familiare”; si sente il tentativo di allargare un discorso culturale e nello stesso tempo tentare moderne soluzioni da industria su larga scala. Armonici e grandi gruppi in terraglia bianca di ispirazione mitologica e in stile neo-rococò con donne e putti avvolti da eleganti panneggi venivano prodotti per l'arredamento dei salotti gentilizi, mentre contemporaneamente una produzione di gusto popolaresco, naturalistica, veniva curata con eguale amore per assecondare il gusto della media borghesia.

Accanto alla produzione plastica, troviamo anche esempi di portati dalla complessa e monumentale fattura, belle placche decorative e vasi arricchiti da fregi in rilievo. Ci rincresce che questa manifattura non fosse più attiva nel momento dei “Liberty” perché in questo caso forse Napoli avrebbe potuto inserirsi anche con plastiche e oggetti, e non solo con i pavimenti, a livello europeo. Ma chiusasi la fabbrica “Industria Ceramica Napoletana”, Giuseppe Mosca pur aprendo una piccola attività in proprio fu costretto a rientrare nei limiti tecnici ed economici che un'iniziativa personale inevitabilmente comportava.

La fabbrica Campagna

Fra le più rinomate fabbriche cittadine di maioliche per rivestimenti e pavimenti attive intorno al 1900 bisogna annoverare certamente la manifattura di Gaetano Campagna posta nella prima traversa della Strettola Sant'Anna alle Paludi Gaetano Campagna era subentrato nella direzione della fabbrica al padre Stanislao intorno al 1890; la produzione paterna era già ottima, naturalmente in stile ora neo-barocco ora neo-rococò, ora naturalistico. Un particolare impegno veniva posto nella realizzazione dei pannelli religiosi per edicole stradali, frontespizi di chiese, androni. La facciata della fabbrica venne rivestita tra il 1905 e il 1910, in più riprese, con fregi maiolicati, che miracolosamente sono rimasti al loro posto e sono ancora oggi visibili. In un angolo si può leggere su di una lapide: “in questa casa, dove realizzò il suo sogno di lavoro, moriva il 28 gennaio 1932, Gaetano Campagna. i suoi operai ceramisti, per i quali egli fu padre, questo ricordo posero, ad imperitura riconoscenza, ottobre 1922”.

Questa manifattura, venne effettivamente molto seguita e amata dal proprietario. Campagna non aveva figli, abitava nella palazzina accanto alla fabbrica dedicando ogni pensiero al lavoro e ai suoi operai. La vedova di un suo pittore ceramista, la moglie di Gaetano Guida, mi ha parlato, solo qualche anno fa, ancora commossa della personalità di Campagna. Non c'è quindi da meravigliarsi se la sua produzione fosse tanto bella, nata e realizzata in un ambiente familiare. La fabbrica Campagna è forse quella che a Napoli è riuscita, nel momento del Liberty, a dare qualcosa in più di quanto non avesse dato in precedenza. Oltre a splendidi pavimenti da me visti in case private, i fregi esterni di molte fra le più curate palazzine floreali di Napoli - come ad esempio in Parco Margherita n. 57 vennero eseguiti da questa manifattura con abilità pittorica e senso stilistico del momento. Particolarmente bella è la produzione di mattonelle fiorate in leggero rilievo e altre il cui disegno risulta stagliato su di un fondo che sempre con il rilievo, cerca di imitare l'effetto “craquelé”. Altri fregi molto raffinati, quasi sempre in blu su fondo bianco, cercano di riprodurre il ricamo punto a croce. A testimonianza della sua attività basti guardare il grande motivo di ortensie posto all'esterno della sua fabbrica e che fra l'altro risente molto, nell'eleganza dell'influsso di quanto veniva eseguito e insegnato nella scuola Officina del Museo Artistico Industriale. Alla morte di Gaetano Campagna la manifattura ceramica passò in eredità ad un suo nipote, che tuttavia nel giro di pochi anni fu costretto a interrompere l'attività per difficoltà economiche.